Invalidità, vergogna, colpa e autostima sono concetti legati tra loro, e che le persone che presentano una forma di invalidità che limita in modo sostanziale la vita, conoscono bene. Non tutti coloro che presentano una invalidità si vergognano o hanno poca fiducia nei propri mezzi, ma la mia esperienza personale di ipovedente e il confronto con persone con disabilità simile alla mia, con disabilità motorie o con forme limitanti , anche se non visibili di disabilità, mi consente di affermare che sentirsi a proprio agio nel mondo è una conquista e non un fatto scontato. Riconoscere a se stessi, innanzitutto, che un limite fisico non rende migliori o peggiori, normali o anomali, handicappati o sani è frutto di un tragitto interiore tutt’altro che banale. Tutti gli esseri umani hanno dei limiti, ma alcuni di essi sembrano più difficili da digerire, perché implicano delle difficoltà di adattamento particolarmente onerose. L’essere umano è evoluto nei millenni, adattandosi all’ambiente attraverso modificazioni fisiche, sensoriali e intellettive che hanno consentito ad alcune caratteristiche di stabilizzarsi e diventare una temporanea norma. Su queste caratteristiche presenti nella maggior parte degli individui viene modellato il mondo in cui viviamo, gli standard culturali e le attese sociali. La società si attrezza anche per l’inclusione di chi si discosta dalla norma attraverso reti di protezione e di facilitazione, ma sono gli stessi soggetti con disabilità, che spesso si colpevolizzano per non essere come gli altri. La società chiede ai cittadini di partecipare e contribuire nei propri limiti e con i propri talenti, e si impegna per dare a tutti la possibilità di portare un contributo. La persona con disabilità deve però elaborare la mancanza di qualcosa che avrebbe desiderato; mobilità, vista, udito, salute. Quando qualcosa ci manca e non possiamo porre rimedio, esiste solo la via dell’accettazione di ciò che è, smettendo di lottare per cambiare le cose, o colpevolizzandoci, o vergognandoci, o sentendoci inferiori. Questo vale anche per malattie croniche che limitano la vita e le relazioni. Alcune condizioni appaiono così limitanti da non consentirci nemmeno di immaginare una soluzione interiore in grado di farle accettare. Mi si stringe il cuore e ringrazio di essere nelle mie condizioni, perché non so se avrei la forza di adattarmi ulteriormente. Sentendomi impotente di fronte alla durezza della vita, posso solo urlare a gran voce di non vergognarvi di quello che siete e di non sentirvi in colpa per non essere “normali” perché nessuno è normale in quanto tutto evolve e il concetto di normalità è assurdo. Se vi sorprendete a provare vergogna, ripetete a voi stessi che rivendicate il diritto a essere esattamente quello che che siete e che a nessuno è dato il diritto di giudicarvi. Nemmeno voi dovete giudicarvi però, e sapete come il giudice più severo sta dentro alle persone stesse. Siate indulgenti e non caricate la vostra vita di uno zaino pesantissimo e pieno di sassi che dovete lasciare ai bordi della strada. La vostra esperienza è faticosa ma non meno degna di quella di chiunque altro.