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Osservare un bambino regala sempre una sensazione di meraviglia. I bambini sembrano avere una marcia in più e, in ogni istante è possibile osservare in loro nuovi comportamenti. Gli adulti hanno sperimentato che, col tempo, memorizzare è più difficile, lento e faticoso.Questa diminuzione della velocità di apprendimento, legata all’età, è il risultato di un processo di adattamento del tutto normale. Il lavoro che deve svolgere il cervello di un bambino, richiede l’elaborazione rapidissima di tanti impulsi contemporanei e tutti sconosciuti, al fine di trovare il giusto adattamento. Una elaborazione lenta, nella prima fase della vita, non gli consentirebbe alcun passo in avanti nell’apprendimento. Il cervello di un bambino che impara a camminare deve valutare quanti impulsi inviare ai muscoli della parte anteriore e di quella parte posteriore del corpo, per trovare la giusta misura che consenta di muoversi mantenendo l’equilibrio. Troppi o, al contrario,  scarsi impulsi ai muscoli anteriori e posteriori, determineranno la caduta. La programmazione di questi impulsi avviene lentamente, verificando il risultato degli impulsi inviati in precedenza. Il procedimento è lo stesso di un adulto che intende avvicinarsi a una meta molto piccola e molto lontana. Prima farà grandi passi molto veloci, poi rallenterà e metterà in atto movimenti più lenti, ma più fini e precisi. Il cervello del bambino, con la sua velocità si avvicina rapidamente alla meta, ma necessiterà, in un secondo momento, di raffinare i gesti e, per fare questo, dovrà rallentare. Ecco purché i bambini piccoli imparano in fretta e gli adulti molto più lentamente. Le ricerche indicano un cambio di velocità a partire dai diciassette anni. Lo straordinario compito riservato ai bambini, da cui deriva la necessità di essere rapidissimi, è quello di imparare contemporaneamente tantissime lezioni, tutte insieme: coordinare movimenti, distinguere suoni, riconoscere oggetti, colori, contesti, volti, distinguere i propri stati interni, districando l’iniziale matassa indistinta proveniente dai sensi. L’uomo procede quindi inizialmente a passi svelti e veloci, per poi rallentare e, a piccoli passi lenti ma precisi, raggiungere le diverse mete dell’apprendimento. E se i bambini sono veloci ma approssimativi, gli anziani, al contrario, sono lenti e ordinati, ma bisognosi di stabilità perché incapaci di un veloce adattamento.

Il mondo tecnologico ha introdotto nuove regole, perché cambia a una velocità mai conosciuta prima e rende poco utilizzabili molte delle competenze acquisite nel corso di una vita. Industrializzazione, scienza e tecnologia hanno messo in cantina sacchi di saggezza accumulati nel tempo ma ormai inutilizzabili di fronte a uno schermo. Ci viene richiesta flessibilità e velocità, ma queste caratteristiche non sono il punto di forza degli adulti d’uomo così come è evoluto, e i tempi dell’evoluzione sono lunghissimi, se paragonati a quanto sta accadendo con l’avvento della tecnologia. Per questo, l’impegno a mantenersi veloci e malleabili è molto faticoso. Siamo programmati per correre all’inizio della vita, per poi rallentare e mettere a frutto quanto appreso in compiti di precisione. La nostra società tende a emarginare coloro che rallentano, chiedendo a tutti una continua trasformazione al fine di essere inclusi (pensiamo al concetto di formazione continua e alle difficoltà di adattarsi a nuove richieste professionali da parte di chi perde il posto di lavoro). Personalmente sono affascinato dal nuovo che avanza, ma vorrei ricordare che un flusso troppo veloce di novità, è difficile da integrare col vecchio. Gli effetti a lungo termine sul cervello degli esseri umani derivante dall’uso delle nuove tecnologie, non sono ancora stati misurati, perché non ve ne è stato il tempo. I nativi digitali (i nati all’inizio degli anni 80), infatti, non sono ancora divenuti anziani per poter valutare questo nuovo modo di vivere.

Torniamo al bambino che sta imparando; egli archivia nuovi contenuti stabilendo tracce mnemoniche e creando nuove strutture, mentre un adulto impara collegando fra loro strutture già esistenti. Dunque, i bambini sviluppano strutture nuove, mentre gli adulti utilizzano e modificano strutture già esistenti. Vediamo come i bambini imparano una lingua. L’orecchio interno trasforma le variazioni di pressione in impulsi elettrici e li invia al cervello. I segnali linguistici vengono dapprima elaborati in maniera molto semplice, vale a dire le frequenze vengono riprodotte nella corteccia uditiva primaria dove si formano cellule nervose responsabili di determinate frequenze. Queste cellule, a loro volta, trasmettono il proprio modello di attivazione alla fase successiva di elaborazione, dove si formano cellule nervose relative alle frequenze che si presentano spesso insieme.  Successivamente avviene la formazione di sillabe con cui verranno formate le parole e in seguito gli enunciati. A loro volta gli enunciati pongono le basi dei successivi livelli di elaborazione, che riguardano il senso e il significato. Parallelamente procede l’elaborazione dell’inflessione, del ritmo, dell’intonazione e di altre proprietà dei segnali acustici. Per imparare è necessario partire da strutture più semplici, per poi passare a strutture più complesse. Il cervello impara prima le frequenze degli input acustici; definisce mappe di frequenze, poi mappe di modelli di frequenza che cambiano nel tempo (suoni), successivamente insiemi di suoni (sillabe e parole), e quindi elabora e acquisisce le strutture che a loro volta emergono da questi modelli, seguendo livelli superiori dell’elaborazione che vengono attivati secondo una certa sequenza. La maturazione del cervello durante il processo di apprendimento permette alle strutture cerebrali di svilupparsi in tutta la loro complessità. Ciò garantisce che il cervello sia in grado di assimilare progressivamente  contenuti più complessi. Un concetto essenziale che riguarda il processo di apprendimento, è quello di finestra temporale: esistono periodi limitati di tempo nei quali sono possibili alcuni fondamentali passaggi. Una volta conclusi questi periodi, sarà molto complicato, se non impossibile, apportare modifiche a quanto si è appreso. Dalle ricerche, sappiamo che le strutture che si sono formate tendono a consolidarsi, e che le tracce scavate continuano a essere utilizzate anche se esistono possibili scorciatoie. Il fiume, con il suo alveo ben definito, viene scelto come percorso anche se esistono sentieri più brevi nella foresta, per raggiungere la meta. Il cervello, conclusa una finestra temporale dedicata a uno specifico tipo di apprendimento, utilizzerà sempre il percorso che si è venuto a formare in quel periodo, rinunciando a parte della sua plasticità. Un esempio di finestra temporale riguarda l’apprendimento di una lingua madre, che avviene in modo automatico ascoltando suoni incomprensibili, creando collegamenti tra suoni e significati ecc.; solo i bambini piccoli possono acquisire una nuova lingua madre. Gli adulti possono solo imparare una nuova lingua, con le difficoltà che conosciamo e con qualcuno che ci insegna le regole grammaticali che il bambino, nella finestra temporale prevista, estrae autonomamente dai discorsi degli adulti. La scoperta dell’esistenza di neuroni specializzati, che favoriscono l’imitazione di comportamenti osservati in altri individui, i neuroni specchio, ha contribuito in modo definitivo a comprendere il ruolo dell’osservazione nell’apprendimento. Ma vedere e riprodurre nella propria corteccia cerebrale, comportamenti osservati non è sufficiente per imparare quanto serve per vivere. L’apprendimento passa anche attraverso la manipolazione di oggetti reali, tangibili, si basa cioè, sia sulla percezione sensoriale del mondo, sia sull’interazione diretta con esso. Manfred Spitzer, in Demenza digitale, porta l’esempio dei giochi con le dita e dele filastrocche che vengono usate da secoli per insegnare ai bambini, e che si adattano perfettamente ai processi di maturazione delle strutture cerebrali, accompagnandoli passo per passo, verso livelli di complessità maggiore. I giochi di semplice manipolazione di oggetti, consente la maturazione di strutture che consentiranno di accedere ai livelli superiori di complessità. La trasformazione di semplici processi cognitivi in competenze mentali superiori, dipende dallo sviluppo adeguato dei livelli più bassi, che farà astrarre il pensiero verso i livelli superiori. Per poter correre, bisogna prima imparare a stare in piedi e poi a camminare.

Le conclusioni che mi sento di trarre da quanto detto sopra, riguardano l’uso di computer, tablet, LIM e altre tecnologie per fini formativi nella prima infanzia. Le ricerche indicano che le prestazioni intellettive migliori vengono ottenute da chi impara attraverso la manipolazione diretta di oggetti reali, piuttosto di chi impara operando su rappresentazioni di oggetti, come nel caso dell’apprendimento attraverso l’uso del computer. La manipolazione diretta consente al bambino di sviluppare i livelli più bassi delle strutture cerebrali, e di lì procedere al livello più complesso. Imparare muovendo oggetti sul monitor trascinando il mouse e cliccando oggetti non facilita o migliora l’apprendimento. Il bambino piccolo ha bisogno di interagire con la realtà, e non con ina sua rappresentazione, per poter creare tracce mnestiche che fungano da base per lo sviluppo delle strutture più complesse. Per esempio, comporre un puzzle trascinando i la rappresentazione dei pezzi usando il mouse è ben diverso, e produce un apprendimento ben diverso dal rovesciare sul pavimento una scatola di pezzi, dividerli per colore toccandoli con le mani uno ad uno, osservare l’immagine da ricostruire, cercare i pezzi con i bordi e così via. Potremmo fare infiniti esempi di questo tipo, descrivendo per ognuno le infinite operazioni per ottenere il risultato finale, e confrontandole con i semplici e ripetitivi gesti che si compiono davanti a uno schermo. Imparare l’operazione reale quando si è bambini, e riprodurla in seguito usando un computer, darà risultati migliori rispetto a operare da subito su rappresentazioni del reale. Voglio farvi un esempio personale di come la conoscenza dell’operazione reale sottostante, abbia un impatto fondamentale sulla conoscenza profonda di cosa si sta facendo col computer. Nella mia vita precedente di tecnico del suono professionista durata 23 anni, ho imparato a registrare tagliare e incollare musica usando nastro, matita per segnarlo, taglierina per tagliarlo e scotch per incollarlo. Nella parte finale della mia carriere sono passato al digitale e tutte queste operazioni le ho compiute usando mouse e tastiera. Questa seconda fase è stata per me la virtualizzazione di operazioni che conoscevo nella realtà e che ho trasferito con piacere sullo schermo. Copia / Incolla su computer riaccendevano in me conoscenze della realtà profondamente conosciute. Il digitale mi ha permesso di velocizzare, non di conoscere la realtà. A meno che qualcuno obietti che la conoscenza della realtà non sia più importante e sia sufficiente il mondo virtuale.