La domanda che gli psicologi si pongono più spesso riguarda l’individuazione del fattore che aiuta i pazienti a stare soggettivamente meglio. Cosa fa dire loro che si sentono meglio dopo un periodo nel quale hanno avuto dei colloqui con uno psicologo? La risposta più plausibile a questa domanda è che a far stare meglio le persone che soffrono di un qualche disturbo psicologico, sia la relazione con il terapeuta. Un fattore aspecifico, difficile da descrivere e rendere codificato, che con il tempo produce dei cambiamenti nei pazienti. Cambiamenti nel modo di pensare, di comportarsi, di percepire il mondo, di relazionarsi con le altre persone e con gli eventi. Ma come è possibile che ciò avvenga?
Le ragioni di quanto avviene in una relazione di aiuto, stanno proprio nel tipo di rapporto che si viene ad instaurare, nuovo nelle sue modalità, rispetto a quelli abituali della vita quotidiana con familiari, amici, colleghi e conoscenti. Certamente lo psicologo ha una sua strategia, adotta le sue tecniche, ma senza una relazione basata sull’empatia, sull’autenticità del suo modo di porsi, la capacità di ascoltare e la curiosità sincera per la storia del paziente, difficilmente potrebbe realizzarsi un miglioramento. Troppe volte per i pazienti, l’unica occasione di una relazione basata su questi presupposti, è rappresentata dai 50 minuti della seduta. Il resto della settimana è impegnato a portare avanti rapporti interpersonali che si basano su principi diversi quali la competizione, la difficoltà di farsi ascoltare, l’indifferenza, la poca curiosità verso l’altro e tanti altri limiti del nostro tempo che tutti credo, ben conosciamo. Indubbiamente sarebbero preferibili relazioni piacevoli e meno stressanti nella vita quotidiana, ma imparare a cercarle, a costruirle e a mantenerle vive, è uno dei possibili obiettivi della relazione con uno psicologo.